Il tipo del sindacato (school drama: atto secondo)

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Arriva quel momento dell’anno scolastico in cui compare la circolare che indica e invita alla partecipazione all’assemblea sindacale, perlomeno di quelle sigle che sono presenti a scuola. Da parte docente si accoglie l’appuntamento con vari sentimenti che oscillano dal combattivo (lottadurasenzaaura) al lassismo più sfrenato (daje così me salto ‘ste due ore in 3F). Le sigle sono tante milioni-di-milioni ma al tavolo solitamente sono ammessi solo delegati esterni e rappresentanti dell’Rsu, altrimenti le assemblee dovrebbero tenersi all’aperto così da contenere tutti gli acronimi di tutte le sigle, spesso frutto di estrosi e casuali accostamenti delle lettere dell’alfabeto (ma pochissime vocali).

In quasi tutte le assemblee ci sono: la Gilda (che al nord Italia, in cui si antepone l’articolo determinativo ai nomi, equivale al chiamare una persona di sesso femminile di nome Gilda), lo Snals-Confsal, l’Anief, la Cisl, la Flc-Cgil e la Uil.
Iniziano ad arrivare al tavolo e a prendere posto e riesci a distinguerli per sigla dal tuo osservatorio privilegiato di uditore.

Il delegato esterno della Cisl è già al tavolo e ha apparecchiato la sua postazione: ha aperto davanti a sé un piccolo computer ultimo modello da 13 pollici, aggiornato a Windows 11 e con due tipi diversi di antivirus a sorvegliare la sua attività digitale e online, dato che la prudenza non è mai troppa. Veste elegantemente una camicia celeste e, sopra, un maglione blu oltremare con toppe ai gomiti di colore più tenue che rimanda alla colorazione della camicia; pantaloni scuri e scarponcini alla moda con stringhe sottili. La sua postazione non prevede di mostrare all’uditorio la sua presbiopia: gli occhiali sono tenuti nella sua mano sinistra (con la destra governa il mouse) oppure arpionati all’apertura della camicia, altezza Pomo d’Adamo. Nei momenti più intensi della discussione, quando deve inforcare e poi togliere gli occhiali, li appoggia sulla testa come fossero occhiali da sole: il delegato Cisl è spesso calvo ma non teme di esserlo. Caso a sé l’Rsu della Cisl. Ha un’agenda della Cisl di fianco al pc, una penna della Cisl, lo zaino regalato dal sindacato durante un seminario a cui ha partecipato solo perché c’erano caffè e tartine gratis, prende parola per intervenire ribadendo quanto detto dal delegato esterno. La platea generalmente non si cura di lui, ogni tanto il brusio crescente chiede quando andrà finalmente in pensione, allargando le braccia come si fa nella preghiera del Padre Nostro.

Il delegato Snals/Confsal è uno di quelli che arriva in ritardo e ciabattando con le scarpe, tremendamente fuori moda o sformate dal troppo uso, non curandosi del fatto che tutti lo stiano osservando. È sovrappeso e non fa nulla per nasconderlo: il maglione è generalmente di due taglie più piccole e tutte le forme del suo fisico vengono accentuate dal tessuto in poliestere di color verde acceso. La sciarpa (il delegato Snals ha sempre una sciarpa al collo) è di un colore di audace abbinamento a quello del maglione, tuttavia lui la indossa ugualmente e con fierezza, chissà per quale ragione. Generalmente meridionale, proviene dalle zone più remote della sua regione (quale che sia), solitamente da centri abitati da meno di 540 persone: per tornare dai suoi affetti familiari prenderà un treno che si fermerà ai confini della realtà (cioè Ferrandina o Metaponto Scalo). Non ha pc ultimo grido davanti a sé, non ha penne o fogli: ha il solo smartphone (che appoggia orrendamente sulla custodia contenente gli occhiali da presbite) di cui si serve per consultare ogni cosa: dalla ricetta per lessare le patate, alla nuova normativa in merito al contratto collettivo nazionale. A differenza del collega della Cisl non ha vergogna di mostrarsi presbite e, infine, ostenta dei braccialetti (di solito superiori a 5 per polso) affiancati ad un orologio smart enorme di marche costosissime. Non riesce mai a pronunciare correttamente la sua sigla sindacale nonostante vi appartenga.

Sul delegato della Cgil di solito ci sono varie aspettative. La prima lo vorrebbe combattivo, vestito di abiti non di marca, barba incolta e capelli a mezzocollo, rigoroso eskimo indosso e trascuratezze varie nell’abbigliamento. Tanto maggiori sono le trascuratezze, pensa la vox populi, tanto maggiore sarà il livello di comunismo e combattività. La seconda lo vorrebbe, invece, ordinario ma con piglio diverso rispetto agli altri: maglioncino a collo alto, polacchine ai piedi, sciarpa da intellettuale e occhiale marrone con striature d’ocra.
Entrambe vengono puntualmente disattese, dal momento che le aspettative sono nient’altro che proiezioni che si formano nelle teste dei lavoratori, ansiosi di sentire quel che ha da dire il proprio rappresentante. Solitamente è colui a cui è stato dato l’incarico di dirigere la riunione poiché è più smart degli altri i quali – sì – hanno un pc, ma non vanno oltre l’inserimento di una chiavetta Usb, sebbene a lui tale compito non vada proprio a genio. Di solito ha con sé un pc marca Lenovo e una spilla della propria organizzazione sul maglione.
Discorso a parte se il delegato appartiene a Lotta Comunista. In tal caso l’ordinanza prevede giacca e cravatta, giornale dell’organizzazione (non lo si chiami partito perlamordiddìo) piegato nella tasca della giacca. Condite il tutto con vaniloquio q.b. e prese di posizioni aprioristiche. A fine riunione, in cui non avrà esposto nulla se non il proprio ego, cercherà comunque di vendervi una copia del giornale.

¡Viva la vida, muera la muerte!

«Non so fino a che punto, ma lei, dottor Pereira, lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita, dottor Pereira»

Esattamente un mese fa, il 27 ottobre, il bar-bottega del commercio equo del centro di Nembro, Gherim, si è svegliato con una sorpresa scritta di nero sui paraventi dello spazio esterno. «Un rosso buono è un rosso morto», recitava la frase scritta nebulizzata a vernice sul paravento del dehors. C’era anche un simbolo ad accompagnare la scritta, uno di quelli appartenenti alla galassia delle formazioni neofasciste presenti in Italia.
Sulla stessa lunghezza d’onda, dieci giorni fa a Brescia è nato il comitato Remigrazione, egemonizzato da Casapound, evidentemente in cerca di rilancio mediatico e politico. Il comitato si ripropone, tra le altre cose, di introdurre l’istituto della remigrazione, cioè: «lo strumento di governo del fenomeno migratorio finalizzato a incentivare il ritorno degli stranieri nei Paesi d’origine».
Da «aiutiamoli a casa loro» a «riportiamoli a casa loro» è un attimo.

Entrambe le proposte hanno in comune un minimo comune denominatore: morte.
La prima lo richiama anche lessicalmente; la seconda non vi fa riferimento esplicito ma riconduce al concetto di “torna da dove sei venuto”, trascurando che le guerre occidentali si combattono sulla pelle di quello che un tempo veniva chiamato Sud del Mondo o Terzo Mondo. La sublimazione del pilatismo applicata alla contemporaneità. A chi tende il braccio per coprirsi dal sole, la morte piace moltissimo: sembra quasi che la desideri.
Fin da quando, d’annunzianamente, a Fiume si rispondeva «a noi!» al grido «a chi la morte?». Fin da quando le loro uniformi nere come l’abisso venivano decorate di teschi.

Un mese dopo quelle scritte, Gherim organizzerà una colazione solidale per promuovere i valori del commercio equo contro chi grida alla morte, rispondendo con: solidarietà, pace, libertà.
E se c’è qualcuno a cui piace così tanto la morte, chi parteciperà domenica 30 ribadirà il suo amore e il suo attaccamento alla vita.


¡Viva la vida muera la muerte!

Il dramma senza fine del Sudan

Lo smembramento del Sudan avviene nell’indifferenza internazionale: venticinque milioni di persone a rischio di morte per fame.

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Le Nazioni Unite hanno definito la guerra civile in Sudan «la più grave crisi umanitaria del mondo». «Ci sono almeno dodici milioni di persone che hanno lasciato le loro case, di cui due milioni sono emigrati dal paese, il resto rappresenta la gran massa di sfollati interni», a parlare è padre Diego Dalle Carbonare, superiore provinciale dei Comboniani in Sudan. Lo abbiamo intervistato mentre si trova a Port-Sudan, città strategica per il paese, ora ancor più importante data la presa di El-Fasher (capoluogo del Darfur del nord) da parte del gruppo militare “Forze di supporto rapido” (Fsr).

«Venticinque milioni di persone sono a rischio fame di cui cinque in una situazione di rischio acuto di carestia e sette di bambini che non hanno accesso all’istruzione. Il mondo in questi anni si è rivolto all’Ucraina e alla Palestina ma qui si sta consumando una crisi enorme», dichiara il missionario comboniano. Certo è che se si guardano solo i numeri dei caduti in battaglia, c’è il rischio di non comprendere la portata di due anni di conflitto in un paese atomizzato e in preda a scontri tra bande armate: «i morti diretti a causa delle pallottole – per intenderci – sono stimati attorno a duecentomila» ma non si contano tra questi: «i civili che non hanno accesso alle medicine, al cibo e all’acqua».

Cosa sta succedendo in Sudan?

Da due anni [2023] in Sudan vi è una guerra civile scoppiata a seguito di una lotta per il potere tra l’esercito regolare e le Fsr. Ma come ogni crisi che porta ad un conflitto armato, le cause della guerra vengono da lontano. Nel 2019 l’allora presidente Omar al-Bashir (in carica dal 1989) viene destituito da un colpo di stato militare. La mediazione a cui si giunge è quella di una giunta mista politico-militare di transizione verso un nuovo assetto democratico. Nel 2021 un nuovo colpo di stato stravolge di nuovo la storia. A condurre l’operazione furono due generali: Abdel Fattah al-Burhan (generale, capo delle forze armate regolari) e Mohamed Hamdan Dagalo”Hemdeti”(vice di al-Burhan ma anche capo delle Fsr). Tra i due sorgono dapprima dissapori e successivamente scontri accesi sulla direzione che il paese avrebbe dovuto intraprendere: al-Burhan diventa presidente de facto imponendo un regime durissimo considerato dittatoriale da molte organizzazioni internazionali come Humans rights watch. Dal 2023 la situazione è precipitata ed è stata guerra tra le parti in lotta.

Una situazione complessa

Ma si tratta di un conflitto scaturito da astio, poi degenerato in odio, tra due generali. La realtà dei fatti è che il Sudan si sta atomizzando sempre di più: «da una parte vi sono le Fsr, mercenari al soldo degli Emirati Arabi Uniti; dall’altra l’esercito di un regime dittatoriale il cui periodo di governo è stato caratterizzato dall’imposizione della legge islamica», ha dichiarato il missionario comboniano. Il coinvolgimento emiratino parrebbe essere presente da tempo nella regione: d’altra parte il Sudan è uno di quei posti ricchi di preziosi nel sottosuolo. A marzo di quest’anno il governo di Khartoum aveva intentato una causa contro gli Emirati davanti alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di aver sostenuto le Fsr. Da Abu Dhabi avevano negato tutto ma il rapporto è definito da più attori istituzionali come «alleanza strutturata». A tal riguardo va precisato anche come non sia «una guerra combattuta con vecchi kalashnikov riciclati», come ha tenuto a precisare Dalle Carbonare, ma «con droni e armi sofisticate di produzione occidentale».

La comunità internazionale tace

I paragoni con altre realtà statali del continente potrebbero non essere calzanti tuttavia parrebbe essere di fronte ad uno scenario di smembramento simile a quanto è avvenuto (e sta ancora verificandosi) in Libia. Se in un primo momento di quest’anno le forze armate del governo di Khartoum sembravano essere in grado di contenere (e in alcuni casi sconfiggere) le Fsr, con la presa di El-Fasher si è verificato un nuovo stravolgimento.

Che sia il diritto internazionale a prevalere e che si possano aprire corridoi umanitari è quel che si augura Dalle Carbonare ma sul ruolo della comunità internazionale è scettico: «sarà un percorso lungo perché, a parte un tentativo di mediazione nel 2023, non ce ne sono stati altri»; da un lato Donald Trump parrebbe aver posato sguardo ed intenzioni belliciste altrove, dall’altro l’UE «si muove con estrema lentezza». E in Sudan si continua a morire.

Una presenza che ha sfidato stereotipi e pregiudizi

Dalla nave Vlora ad oggi, un bilancio sulla presenza albanese in Italia trentaquattro anni dopo.

Fabrizio Spucches “Noway!” – Scatto alla foto esposta alla mostra “Coraggiosi si diventa” di Bergamo

«Venticinque anni fa avevo dato un taglio netto alla mia vita: avevo 36 anni e volevo ricominciare da capo». Durim Taci, scrittore bilingue e filologo, ha avuto modo di raccontarsi e raccontare un pezzo d’immigrazione albanese in Italia. L’occasione l’ha creata giovedì 20 l’Associazione di Mutuo Soccorso allestendo l’incontro «Oltre il mare» invitando a parlare Andrea Valesini (caporedattore de «L’Eco») e Giorgio Gori (europarlamentare PD, già sindaco), oltre al già citato Taci. «La prima cosa che ho fatto, una volta arrivato in Italia, è stata quella d’iscrivermi ad un corso di scrittura creativa a Milano», ha proseguito Taci, in continuità con la sua mansione in ambito artistico ed editoriale al di là dell’Adriatico: per i suoi lavori ed è stato insignito del Premio Montefiore nel 2016 e più di recente del Premio nazionale di letteratura albanese.

I primi sbarchi

L’immagine che viene spesso rievocata, quando si parla di immigrazione albanese, è quella della nave Vlora, partita da Durazzo e giunta carica di persone a Bari nell’agosto 1991. Gli sbarchi sono proseguiti negli anni successivi: «nel 1997 ero a Napoli a seguire la Conferenza nazionale sulle dipendenze – ha ricordato Andrea Valesini – venni richiamato dal giornale per far sì che mi recassi in Puglia (Brindisi), perché iniziavano ad esserci numerosi sbarchi. Vidi giungere una nave colma di volti impietriti dal dolore». L’Albania stava faticosamente lasciandosi alle spalle la tragica dittatura di stampo maoista: Enver Hoxha era morto nel 1985 ma i suoi epigoni continuarono nel solco tracciato dal leader fino al 1991. Una manciata di anni dopo il crollo della Repubblica Popolare, la popolazione albanese chiedeva di poter guardare ad un futuro che fosse anche al di là del mare. «Nei centri dove venivano ospitate le persone appena giunte in Italia – ha proseguito Valesini – raccolsi alcune storie: erano colme di vita dura, di povertà, di gente che stava cercando a fatica una nuova stabilità mentre si lasciava alle spalle una dittatura terribile».

L’arrivo di migranti via mare non si è certo fermato nell’ultimo trentennio ma quello della Vlora «rappresenta l’immagine più potente», ha commentato Giorgio Gori. «Quella nave, carica di ventimila persone, – ha poi proseguito – ha lasciato un solco enorme nella memoria, così come per quel che successe in seguito: si verificò uno scontro istituzionale sulla gestione di quelle persone, lasciate a se stesse e chiuse nello stadio di Bari, fin quando una parte consistente venne imbarcata nuovamente e riportata indietro».

Contro stereotipi e luoghi comuni

La presenza albanese in Italia ha vissuto diverse stagioni: «credo che abbia rappresentato un esempio per cui l’integrazione sia stata guadagnata sul campo, col lavoro, sfidando luoghi comuni e pregiudizi», ha affermato Gori che ha poi ricordato come l’Albania di oggi sia un paese che «aspira fortemente ad essere parte dell’UE, mostrando di voler scrivere un futuro d’altro segno rispetto all’hoxhaismo». I colloqui tra Tirana e Bruxelles/Strasburgo sono cominciati nel 2014 e da quel momento vi sono continue riunioni e incontri tra le parti per monitorare un iter che «forse potrebbe terminare in questo decennio», secondo Gori.

Certo è che se la popolazione albanese ha «conquistato sul campo» la propria presenza, l’Italia ha ancora molto da fare a tal proposito: l’ex sindaco ha ricordato come sia ancora in vigore la legge Bossi-Fini che, tra le altre cose, lega la presenza straniera in Italia (dunque il permesso di soggiorno) al contratto di lavoro. Allo stesso modo la legge sulla cittadinanza non è stata modificata, né è stata prestata attenzione alla proposta dello ius scholae, avviata dalle associazioni degli studenti medi nel 2023, che mirava a far ottenere la cittadinanza a ragazzi stranieri impegnati in percorsi scolastici in Italia da almeno 5 anni.

Non chiamiamola «emergenza»

La politica sembra non comprendere la portata della questione anche da un punto di vista lessicale, dato il ricorrere all’espressione «emergenza sbarchi» legata al fenomeno migratorio: «in trent’anni l’Italia non è ancora riuscita a dotarsi di un sistema d’accoglienza efficace», ha ricordato Valesini.

Un’emergenza che richiama i fatti dell’ottobre ‘24, ovvero la ratifica dell’accordo italo-albanese per la gestione dei flussi di migranti, appaltando il problema a Tirana.

Per provare a comprendere il fenomeno delle migrazioni, dunque dell’accoglienza, si dovrebbe chiamare in causa la politica estera, «cercare di capire quel che succede nel mondo» (l’aumento demografico africano) e in Italia (la cronica denatalità). «Dovremmo smettere – ha continuato Valesini – di utilizzare la parola ‘emergenza’ istituendo dei canali stabili. L’immigrazione rappresenta l’indicatore dello stato di salute del mondo».
Eppure la cartella clinica degli stati ha valori sempre più alterati, giorno dopo giorno.

Kerouac vive, abita in Veneto (e odia Rovigo)

Chi avrebbe mai detto che Paura e delirio a Las Vegas avrebbe potuto avere una sua versione veneta. Intendiamoci, Le città di pianura non gli assomiglia se non per il ricorso all’eccesso e al genere del road movie. Ma il viaggio dei due (splendido, Capovilla), che poi diventano tre, si dipana nel profondo Veneto e, per l’appunto, nelle “città della pianura” e allora il viaggio non è soltanto fisico, da Trebaseleghe a Camposampiero passando per l’immaginaria Cornia, è soprattutto metafisico e introspettivo: Carlobianchi, Doriano e Giulio si inerpicano nell’ardua scalata del superamento di una notte, piena di malinconia, ricordi e di alcol.
Una melancholia che vive fin da subito una biforcazione, poi ricongiunta a fine pellicola: una prima svolta è quella che introduce subito lo spettatore nell’inganno derivato dalla produttività presente nel territorio veneto, dalla vita spesa per il lavoro, in quel Rolex (regalato al pensionando Primo dal padrone che arriva in elicottero), indossato poi ogni giorno, nella vita ormai priva del lavoro, per azionare il pulsante delle videolotterie; la seconda è nella vita stessa dei due protagonisti, ex lavoratori di una grande fabbrica di occhiali della zona, insieme a Primo, che tentano di gabbare la vita del produci-consuma-crepa finendo per vendere in modo illegale e sottobanco degli scarti di produzione.
«Come stavamo bene negli anni ’90, eh», dice Carlobianchi a Doriano mentre sono illuminati dai fari di una vetusta Jaguar S-Type e tentano di riprendersi da una pessima bevuta ai margini di quel che doveva essere un pub/diner filo-statunitense posto a lato di una scarsamente illuminata strada provinciale.
La lunga notte che hanno di fronte Carlobianchi e Doriano, iniziata con una manciata di birre analcoliche e conseguente disprezzo dei due, si dipana in una serie di posti visitati, fiumi di alcol bevuti e culmina con l’incontro del giovane Giulio. La brigata, in qualche recensione fin troppo sbrigativamente sovrapposta a quella di Pinocchio insieme al Gatto e la Volpe, avrebbe dovuto avere Mestre come meta di ritorno ma è il passato che bussa alle porte dei cuori e della testa di Carlobianchi e Doriano. Genio, il loro terzo della combriccola, fuggito in Argentina per evitare una condanna derivata dal giro di rivendita di occhiali, tornando in Italia, ritrova i due esattamente come li aveva lasciati e anche il saluto che riserva loro, nel buio parcheggio all’aperto di un modesto centro commerciale, non tradisce emozioni positive, se non la rassegnazione della vita che è stata vissuta eccessivamente e che ora sta presentando il conto a tutti e tre. Giulio, dopo la batosta amorosa subita, si concede 48 ore senza pensare alle conseguenze delle sue azioni, bevendo qualsiasi cosa gli venga proposta (a qualsiasi ora), fuggendo dalla realtà, lasciandosi alle spalle le conoscenze fugaci dell’Università (anch’esse alcoliche e stupefacenti) e sognando ad occhi aperti, fino al momento in cui risalirà su di un treno regionale che lo riporterà là dove aveva desiderato di andare prima dell’incontro con i due. Forte, però, di una sprezzante e campanilistica consapevolezza imparata in quelle ore in cui si è «troppo vecchi per crescere»: Rovigo non esiste.
Menzione speciale va alla colonna sonora firmata Krano: dall’album «Requiescat in Plavem» sembra non essere passato un giorno e le nuove canzoni (scritte appositamente per il film) si intrecciano benissimo con le meno recenti “Va pian” e “Coparse”.

School drama (atto unico)

Il primo settembre significa “presa di servizio”, perlomeno se sei ancora supplente. Se sei di ruolo puoi stare tranquillo fino al primo collegio docenti, collocato immancabilmente nella prima settimana di settembre. Ad accoglierti nella scuola x/y (in ogni scuola) si mostrano davanti ai tuoi occhi, come fossero su di un palcoscenico, tutte le maschere della commedia dell’arte della scuola.
E sebbene stia parlando di una scuola del nord Italia, in questo ambito le differenze con Roma sono minime.

C’è il bidel… personale ATA che viene dalla Sicilia e inizia a fare il simpatico mostrandoti il plico di fogli di svariate pagine da compilare minuziosamente, in cui dovrai dichiarare le medesime cose ad ogni pagina (servizi svolti, numero di ore, domicilio, residenza e via dicendo). Ti porge il foglio e ti fa: «Bene professore, adesso ci vediamo tra un’oretta», sorride e ti indica l’aula in cui ci sono altri colleghi che stanno svolgendo tale lavoro amanuense.

Entri nell’Aula zero, saluti con un timido “buongiorno” e una dopo l’altra compaiono le maschere sul proscenio dell’anno scolastico che sta riprendendo: c’è la collega di scienze che ha 50 anni che ti chiede sottovoce (come se stesse copiando ad un compito in classe) se bisogna davvero compilare tutto per così tante volte; c’è la collega quarantenne che sta prendendo servizio per il ruolo e sbuffa ad ogni foglio rumoreggiando che siamonel2025eiononsoperchécifannosperecarecarta, oppure l’Amazzoniaciringrazierà o ancora machebisognoc’ècheiodicatuttequestecosenonpossologgarmiconloSpid?; c’è il supplente di scienze motorie che viene già in tuta, ai piedi ha delle Hoka blu oltremare e verde menta e mastica rumorosamente la gomma. Davanti a te la collega siciliana sulla trentina compila diligentemente senza far motto: ha il telefono (un iPhone ultimo grido) messo a tracolla com’è di moda ultimamente, come se fosse una borsetta. Sa tutto quello che deve compilare alla perfezione. Lo sa perché lei ha conoscenze. Ha parenti che lavorano al ministero e le mandano delle soffiate su graduatorie, leggi e normative vigenti. Lo sa perché si è trasferita da Marina alta di Torregrotta Montana bassa a Bergamo su segnalazione di una cugina di secondo grado la cui zia, osteopata, ha la domestica che ha una sorella dirigente del Ministero a Roma che le avrà detto più o meno così: «Vai a Bergamo perché la provincia di Marina alta di Torregrotta Montana bassa per la tua classe di concorso è satura». Di conseguenza il legame con questa conoscenza si fa incessante: la collega siciliana sa tutto e conosce ogni procedura ma a metà compilazione (cascasse il mondo) si gira chiedendoti se bisogna compilare anche il modulo per il ritiro di persona dello stipendio presso le Poste Italiane. È uno di quei moduli che spesso non vengono neanche consegnati per la compilazione. Lei lo sa che non va compilato ma vuole la conferma anche da te. Ha le scarpe a punta di colore giallo fluo e tacchi altissimi, un’orrenda camicia a fiori di un filato plasticoso che manco mi nonna e le unghie lunghissime con dei finti (spero) strass di tanto in tanto sul medio, l’anulare, l’indice.

Termini la compilazione, vai alla segreteria del personale e ti metti in fila. Davanti a te c’è la collega neo mamma (maglietta girocollo sotto ad un maglione pure girocollo di colori diversissimi, borsa gigante al seguito, Stan Smith ai piedi) che si presenta subito chiedendoti delucidazioni sulla legge duemilatrentanove comma secondo protocollata nel marzo ’23 (il cui aggiornamento giace da mesi presso Palazzo Madama per un cavillo burocratico) secondo cui anche lei potrebbe aver accesso ad un giorno in più di permesso per motivi familiari. Fai spallucce perché non sei a conoscenza di quella specifica legge ma la conversazione va avanti sulle scuole in cui avete prestato servizio. Tocca a te: consegni il plico compilato alla segretaria che lo riceve al di là dal vetro, di quelli con il foro tipo ufficio postale o azienda del trasporto pubblico locale. Alle sue spalle noti una cartina fisica enorme della regione Basilicata, evidentemente posta a rimarcare il luogo di provenienza della maggior parte degli impiegati. Hai la tua chiavetta usb in mano, quella con tutti i documenti che occorrono per la validazione della supplenza e per le verifiche delle attestazioni e delle certificazioni: te la sei preparata dall’anno scolastico 2021-2022, da quando la succursale presso cui lavoravi ti aveva chiesto di fornirgli una cartella con tutti i documenti. Da quel momento in poi aggiorni quella chiavetta e ogni anno la presenti alla presa di servizio e anche oggi la porgi alla segretaria la quale, tuttavia, ti spiazza: «Riesce a mandarmi la documentazione via mail?».

A Bergamo dicono così, quando devono chiederti una cosa: «riesci a *infinito del verbo*»: certo che ci riesco ma ti stavo agevolando. «No, meglio via posta elettronica» e ogni volta che una segretaria dice per esteso “posta elettronica” ti ricordi del tuo vecchio “Windows95” costato ore di urli da parte di tuo padre che si era incagliato nel dialogo con l’MS-DOS e che ti litigavi con tuo fratello per giocare a GrandPrix2 (in cui cercavi di vincere le gare prendendo la Minardi o la Tyrrel ma finivi sempre col motore in fiamme).

Esci dalla segreteria e arriva la collega di storia dell’arte. Ne individui subito la materia d’insegnamento perché indossa un mucchio di monili: ha anelli su tutte le mani, orecchini presi al mercatino di Cornareggio Montano alto da un hippie con la barba che le ha letto la mano prima di concludere l’affare.

Davanti a te, nel grande spazio presente all’ingresso di ogni scuola, passa un signore partenopeo che sta parlando al telefono parlando del Napoli calcio e della formazione della prossima partita di campionato in un dialetto molto marcato. Chiude la chiamata e si rivolge a una collega molto più giovane che passava di lì: «Voi siete di materia sciendifica?», lei scuote la testa e dice di essere di francese. Ma lui prosegue: «No è che io sono assistende di lab(b)oratorio ma quessS’anno sòno su sosSègno». La collega, che vorrebbe scappare, si limita ad annuire.

E infine arrivano colleghe e colleghi che sono stati nominati nuovamente in quella scuola che iniziano a chiamare tutti per nome: si avvicinano a tutti schioccando le labbra sulle guance dei collaboratori e dei vice del preside, già che ci sono salutano anche te come faceva fantozzianamente Calboni a Cortina.

È proprio ricominciato l’anno scolastico.

[Questo post è frutto della fantasia dell’autore. Gli stereotipi sono stereotipi e non c’è riferimento alcuno ad alcuna circostanza in particolare. Si satireggia.]

Ma quali terre rare: c’è un brasiliano che gioca in Groenlandia!

Terre rare, investimenti immobiliari, centrali idroelettriche e installazione di poderosi data center. L’interesse di Donald Trump per la Groenlandia non rappresenta una notizia che possa annoverarsi nei termini delle novità. Nel 2019, durante il primo mandato alla presidenza, Trump aveva affermato di voler acquistare la Groenlandia. Letteralmente. Una riedizione moderna della compravendita dell’Alaska con lo Zar. In un lungo articolo di «Bloomberg» dell’agosto di quest’anno si fa esplicito riferimento al fatto che gli alleati economici del presidente statunitense abbiano interesse ad attivare (ma anche riattivare) miniere o progetti estrattivi nel sud della Groenlandia (come Tabreez situato tra Qaqortoq e Narsarsuaq) al fine di poter contrastare «la morsa della Cina», riguardo le terre rare di cui, nonostante il nome, la Groenlandia pare esserne sufficientemente ricca. O almeno, ne possiederebbe quel tanto che basta per poter far sì che l’adagio trumpiano del rendere nuovamente grande l’America possa avverarsi.

In fondo Trump ci spera: le elezioni groenlandesi di marzo hanno avuto l’inaspettato e favorevole esito della sconfitta della sinistra socialista radicale favorevole all’indipendenza dalla Danimarca (Inuit Ataqatigiit – Comunità inuit) in favore della formazione Demokraatit (Democratici), moderatamente autonomista e in passato fortemente unionista con la Danimarca. Una conquista non aver più a che fare coi rossi. Fare della Groenlandia un altro stato americano è uno degli obiettivi dei repubblicani che potrebbero così contare su uno spazio sterminato da poter gestire come dépandance statunitense ma, nonostante la sconfitta della sinistra, la realizzazione del piano Usa potrebbe non andare troppo lontano. Anche i dirigenti dei democratici, a seguito delle dichiarazioni di Trump, si sono spostati su una riaffermazione del principio dell’autonomia, pur in cooperazione con la Danimarca. Chissà che Trump non abbia pensato, foss’anche per un secondo, di far sì che i colloqui attorno al conflitto russo-ucraino si potessero tenere in Groenlandia.

Un fermo immagine del film “We are Greenland: football is freedom” in uscita il 22 agosto [2025]. Fonte: https://www.imdb.com/it/title/tt37644735/?ref_=mv_close

Occhi puntati sul campionato

Ma nell’isola più grande del pianeta, in realtà, il clima non sarebbe stato accogliente per Putin e Trump. Non tanto per questioni legate alla geopolitica quanto per il fattore campionato di calcio. O meglio: un torneo (due gironi all’italiana a eliminazione diretta). Ufficialmente il più breve di tutto il mondo, dato che, ad esclusione delle fasi locali (la cui datazione è molto variabile) le finali si giocano nell’arco di una settimana. Una manciata di giorni, poco più, perché la stagione calcistica dell’isola più grande e a nord del mondo si compia. Quello che un quindicennio fa era il Gm Coca-Cola Championship, sta ora assumendo la forma di un torneo calcistico capace di camminare sulle proprie gambe con una struttura non più embrionale. Mai come quest’anno i groenlandesi attendevano di disputare le partite delle squadre locali sui campi di erba sintetica: la terra battuta è ormai un lontano ricordo e si è mantenuta solo in zone remote del paese (all’est, la parte più povera, o all’estremo nord-ovest).

Un brasiliano in Groenlandia

Così come impazienti erano anche i giocatori e i sostenitori del G-44 di Qeqertarsuaq, il cui 11 titolare vantava addirittura un calciatore brasiliano (Ricardo Carvalho, stabilmente in quarta serie islandese) in prestito tra le proprie fila. È stata la prima assoluta per un calciatore latinoamericano nel campionato groenlandese. Peccato che il G-44 non ha potuto molto contro la vincitrice (di nuovo) del torneo: B-67, una sorta di Juventus artica. La squadra del plurisportivo, allenatore (già calciatore) e icona del pop-rock locale Nukannguaq Zeeb, a cui va il successo della riuscita del prestito di Carvalho, si è dovuta accontentare della medaglia di bronzo. Fin da quando è stato istituito, il campionato in Groenlandia ha fatto in modo di crescere di anno in anno, anche dal punto di vista della visibilità internazionale (quest’anno c’erano anche media del Regno Unito a seguire gli sviluppi del torneo, oltre che la locale emittente radiotelevisiva KNR). Perlomeno per quanto riguarda il calcio maschile.

Ancora niente torneo femminile

Il torneo femminile non si organizza dal 2023. La situazione per il movimento calcistico femminile groenlandese non è rosea e in poco più di dieci anni è andata visibilmente deteriorandosi: dopo il Covid la federazione non ha più avuto la forza di organizzare il torneo. Tutte le risorse della Kak sono state orientate verso la sezione maschile. È bene, però, ricordare che nel 2011 la nazionale femminile di calcio della Groenlandia raggiunse la medaglia di bronzo agli Island Games così come due anni dopo ai medesimi giochi svoltisi a Bermuda aveva ottenuto l’argento. 

Per una manciata di giorni, ad ogni modo, terre rare e geopolitica sono state ben lungi dal toccare l’interesse collettivo dell’isola.
C’era un brasiliano che indossava la maglietta del G-44. Altroché Trump. 

Un fermo immagine del film “We are Greenland: football is freedom” in uscita il 22 agosto [2025]. Fonte: https://www.imdb.com/it/title/tt37644735/?ref_=mv_close

Torino e The Strongest: lontane vicine nella tragedia sportiva

Ultima fotografia della squadra in campo a Santa Cruz a poche ore dall’imbarco fatale. In piedi: Marchetti, Porta, Cáceres, Flores, Franco e Arrigó. In ginocchio: Díaz, Flores, Tapia, Alcázar e Durán. Fonte: Historia del futbol boliviano

«Un atroce lutto per Torino e per il nostro sport», recitava così l’occhiello dell’articolo datato 5 maggio 1949 sul «Corriere della Sera». La firma era quella di Dino Buzzati, a lui toccò scrivere della prematura e violenta scomparsa della squadra granata che, da quel momento in poi, verrà comunemente identificata col nome di Grande Torino.

Vent’anni dopo, il 26 settembre 1969, accadde un avvenimento simile dalla parte opposta del globo: in Bolivia. Un aereo della Lloyd Aéreo Boliviano (Lab) si schianta contro le montagne che sovrastano la località mineraria di Viloco, a più di cinquemila metri d’altitudine. L’aereo stava tornando all’aeroporto di La Paz dopo essere partito da Santa Cruz e trasportava, tra gli altri, i calciatori di una delle squadre più longeve e rappresentative del paese: The Strongest [la più forte]. Anche in quel caso nessun superstite.

La tragedia e il golpe di Candia

L’Italia del ‘49, appena uscita con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale, stava faticosamente facendo i conti con se stessa: la Repubblica era appena nata e il calcio stava aiutando a far dimenticare l’orrore del nazifascismo. Quantomeno ci provava.
La Bolivia del ‘69, allo stesso modo, aveva vissuto un ulteriore stravolgimento nel governo del paese: il 26 settembre si verificò il centottatesimo colpo di stato in centoquarant’anni di storia. Stavolta senza (troppo) spargimento di sangue: il presidente eletto, Barrientos Ortuño, era già morto in aprile in un altro incidente aereo (in elicottero). Siles Salinas, l’uomo che successe al defunto Ortuño, governò quattro mesi e ventitré giorni, dopodiché il generale Osvaldo Candia si presenta a Palacio Quemado (bruciato, a causa di un’altra rivolta tempo addietro) e indica la porta d’uscita a Salinas.

Quel giorno di settembre, però, l’attenzione della Bolivia era altrove. È un’altra la notizia che vola di bocca in bocca e inizia a circolare freneticamente: un aereo è scomparso con 74 passeggeri a bordo e il velivolo con i giocatori del The Strongest, atteso nel primo pomeriggio, avrebbe già dovuto essere rientrato a La Paz. S’impiega poco a collegare le cose: l’aereo del The Strongest è scomparso. “Che se ne vada al diavolo l’ennesimo golpe!”: una folla inizia a radunarsi attorno al civico 1319 di Calle Commercio di La Paz, allora sede della squadra giallonera. 7

«Que nos perdone, Dios!»

Il giorno successivo sui quotidiani boliviani ci saranno due notizie a farla da padrone: il nuovo presidente assicurerà pace e prosperità al Paese (l’importante è che non vi siano guastatori o disfattisti che si frappongano fra lui e il suo progetto riformatore); l’aereo con i giocatori gialloneri è dato per disperso. Nessuno vuole credere alle voci che si rincorrono impazzite: «dirottamento aereo». Sarebbe troppo, anche se è il 1969 e in Bolivia accaddero fatti incredibili. Quattro giorni dopo un gruppo di alpinisti, un sacerdote-alpinista e un giornalista del quotidiano «Hoy», scoprirà il relitto dell’aereo e i cadaveri del The Strongest. Padre Ferrari, missionario bergamasco e avvezzo a praticare alpinismo in entrambe le sue patrie (Italia e Bolivia), fu il primo del gruppo che vide quanto accaduto: «Que nos perdone Dios!», aveva ripetuto tre volte alle 12:00 del 27 settembre 1969. In Italia, due giorni dopo l’accaduto, il quotidiano che dà maggior rilievo alla notizia è «La Stampa»: «Come il Grande Torino a Superga nel 1949. Precipita sulle Ande un aereo con la squadra campione della Bolivia […] Tra i morti Julio Diaz e altri giocatori della nazionale». Non solo: Juan Iriondo, di etnia aymara e amatissimo dalla popolazione, ed Hernan Alcazar furono ritrovati abbracciati semi carbonizzati: intuendo la fine vicina, si strinsero in un abbraccio negli ultimi istanti del volo.

La Bolivia era a pezzi: il golpe passò decisamente in secondo piano, data la tragedia che era capitata alla squadra più forte – di nome e di fatto – del paese.
Tutta l’America Latina partecipò alla ricostruzione del The Strongest: il Boca Juniors inviò due ottimi giovani calciatori, altri giunsero perfino dagli arcinemici del Bolivar; in Brasile venne organizzato el clásico tra Flamengo e Fluminense i cui proventi andarono tutti alla società boliviana; infine, l’allora presidente della Conmbebol donò ventimila dollari americani (allora una cifra faraonica) per la ricostruzione del club.

Da quel momento in poi, entrambe le squadre (Torino e The Strongest) vennero ricordate come le migliori di sempre, ineguagliabili nella loro grandezza e bravura. Poco importa se i gialloneri del The Strongest si fossero imbarcati su quell’aereo con il morale a terra: la squadra aveva partecipato ad un torneo amatoriale della federazione calcistica della città di Santa Cruz ed era sconfitta sia dall’Oriente Petrolero (altro club storico del paese), sia dai paraguaiani del Cerro Porteño, sia da una compagine cittadina (che non aveva neanche un nome!). Sarà per sempre ricordata come gloriosa Strongest.

Se vuoi conoscere di più della storia del The Strongest e del futbol boliviano ti tocca leggere «La più forte – The Strongest e altre storie del calcio in Bolivia»

All’inizio del 1900, dall’altra parte del mondo, un gruppo di giovani di La Paz, vestiti con magliette dal colore simile a bande giallo nere, sta andando a farsi scattare una foto allo storico studio fotografico Cordero, in pieno centro città. Il proprietario ha affisso una pubblicità scritta a mano assicurando fotografie meravigliose grazie a nuovissime lenti acquistate recentemente.
I ragazzi sono fieri e orgogliosi: «Sta per nascere una squadra di calcio a La Paz», dicono. E non sarà come quelle che fino a quel momento stavano popolando il panorama calcistico amatoriale cittadino: la squadra non si scioglierà mai. Lo giurano solennemente. Sarà anche la più forte di tutte le altre.
È l’8 aprile 1908 e 12 ragazzi firmano l’atto di nascita della squadra più longeva della Bolivia: The Strongest, la più forte.
In inglese suona meglio di “la más fuerte”.🟡⚫

” La più forte – The Strongest e altre storie di calcio in Bolivia”, pubblicato da Rogas Edizioni, è disponibile da giugno! 📚

Non lo trovate in libreria? Potete ordinarlo e in pochi giorni sarà saziata la vostra sete boliviana. 🇧🇴

¡Kalatakaya Warikasaya!

Un viaggio in una terra calcisticamente affascinante ma poco battuta: la Bolivia. Un luogo in cui il “grito sagrado” Kalatakaya Warikasaya (letteralmente “rompe la pietra, trema la vigogna”) è diventato motto del club The Strongest nel corso della sua storia, che esprime la forza che come il vento dell’Altiplano è capace di “rompere le pietre” e far tremare uno degli animali più resistenti delle montagne, la vigogna. Una frase che da decenni viene ripetuta dai diversi capitani e soprattutto dai sostenitori di un club la cui storia gloriosa e tormentata, come quella della nazionale boliviana, la “Verde”, che dai giocatori della Strongest è spesso stata composta. “La più forte – The Strongest e altre storie del calcio in Bolivia” per Rogas Edizioni, con la prefazione di Luca Pisapia, è ufficialmente in vendita.

Grazie alle amiche e agli amici, a tutte e tutti coloro che vorranno sostenere questo progetto!

Il Requiem che non ha più voce

Se siete assidui dell’ascolto di Radio Radicale tanto quanto il sottoscritto, forse avete qualche problema. Scherzi a parte: se avete ascoltato l’emittente della Lista Pannella a cadenza (più o meno) regolare negli ultimi dieci anni vi sarete accorti che ultimamente manca una voce.
Non sto parlando di giornalisti o di rubriche ma dei Requiem, tristemente assenti nello spazio di passaggio della programmazione (o talmente ridotti da essere irrintracciabili).
Tra le varie particolarità e unicità di Radio Radicale c’era (purtroppo all’imperfetto) l’utilizzo di specifici intermezzi musicali tra una trasmissione e l’altra: veniva diffusa solo musica da requiem.
Nell’ultimo decennio in particolare, il 90% dello spazio radiofonico colmato dalla musica dell’emittente era tratto dal Requiem in re minore K626 di Wolfgang Amadeus Mozart del Maestro Heribert Ritter Von Karajan.

La scelta di diffondere solo i Requiem fu una precisa scelta politica assunta negli anni ’80: denunciare i morti per fame nel mondo. «Nel 1982 Radio Radicale, nel corso della iniziativa politica contro i milioni di morti per la fame nel mondo, abolisce qualsiasi intermezzo musicale che non sia un requiem», si legge ora sul sito dell’emittente radiofonica. Un’iniziativa già assunta due anni prima dal Partito Radicale nell’ambito del XXIII Congresso: da quel momento in poi il simbolo del partito sarebbe stato listato a lutto con una banda nera trasversale.

Il simbolo del Partito Radicale con la banda nera “a lutto”, simbolo della campagna contro lo sterminio per fame nel mondo. Il Pr partecipò a due elezioni politiche (1983, 1987) col simbolo “abbrunato”.

Ancora dal sito di Radio Radicale, riprendendo il testo della mozione generale dell’assise congressuale: «D’ora in poi fino alla sconfitta della politica di sterminio per fame e per guerra, a testimonianza di pietà, di umana consapevolezza e civile dignità, l’emblema del partito venga corretto in modo da risultare “abbrunato” in segno di lutto, onde contrapporlo al rifiuto decretato dal potere dei partiti e della repubblica, a ogni suo livello, di almeno onorare con un qualsiasi segno ufficiale l’immensa parte dell’umanità in questi anni, in questi mesi, sterminata». La campagna, per la verità, ebbe inizio già «alla fine del 1978» quella «contro lo sterminio per fame nel mondo», come ha ricordato quel fuoriclasse della semiotica politica di Gabriele Maestri (precisamente in questo articolo) citando il libro di Gianfranco Spadaccia pubblicato dall’editore Sellerio.

In tal senso doveva aver fatto scalpore – ma quello era il bello e la peculiarità del Pannella d’antan – il corteo che denunciava lo sterminio per fame nel mondo tenutosi la domenica di Pasqua del 1980, per cui il «Corriere della Sera» concesse uno strillo in prima pagina.

Il corteo terminava esattamente in Piazza San Pietro durante le celebrazioni della Pasqua tra la folla «di giovani di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei».

Ma quel Pr non esiste più e anche quella Radio è andata modificandosi sempre di più, fino quasi a perdere la sua natura militante, stando a quanto dichiarato da Enrico Rufi al «Dolomiti» in un Sommergespräch dello scorso anno, la storica voce della Rassegna delle prime pagine della mezzanotte.

La campagna, insomma, durava da decenni ed era riuscita a superare ogni trasformazione politica, qualsiasi avversità economica, tutti i dissidi e i dissapori della diaspora radicale a seguito della endemica litigiosità dell’area, della scomparsa di Pannella e della moltiplicazione dei soggetti afferenti a quella storia politica. Una campagna che rappresentava tecnicamente uno dei tratti peculiari e distintivi dell’unica radio-senza-musica. Eppure da mesi nessun Requiem viene più mandato in onda, segnando una brusca cesura col passato.

Sarebbe stato utile, invece, tornare a ribadire l’utilità del Requiem contro lo sterminio per fame nel mondo in un contesto di proliferazione bellica e odio razziale. Le guerre aumentano e si nascondono agli occhi di grandi e piccoli media: per l’occidente diventano conflitti locali che devono essere trattati semel in anno ma che producono distruzione, fame e morte allo stesso modo di quelli che finiscono sulle prime pagine di quotidiani e settimanali.
Sarebbe stato utile che il Requiem di Mozart venisse diffuso per denunciare la situazione tragica che sta vivendo il conflitto israelo-palestinese. Ma questo Radio Radicale non lo farà anche e soprattutto in forza dei collegamenti quotidiani con Fiamma Nirenstein, dunque dato il supporto totale allo Stato confessionale d’Israele (tralasciando le accuse di antisemitismo a destra e a manca [clicca per ascoltare l’audio]), dai cui collegamenti emerge uno Stato sionista che si preoccuperebbe e tutelerebbe la vita degli abitanti della Striscia di Gaza. Non lo farà nemmeno il Prntt (Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito) in forza del supporto critico ad Israele (considerata ancora «l’unica democrazia del medio oriente» quando con tutta evidenza non ha le caratteristiche dello stato liberale occidentale, pur riferimento del mondo radical-liberale [per approfondire vedere qui: https://www.atlanteditoriale.com/lannus-horribilis-della-democrazia-israeliana/ – a tal proposito da 50:00 la trasmissione settimanale con il segretario nazionale del Prntt https://www.radioradicale.it/scheda/766243/conversazione-settimanale-con-maurizio-turco-segretario-del-partito-radicale).

Chissà che storia diversa avremmo raccontato se la diffusione del Requiem fosse proseguita in un contesto di crescente recrudescenza bellica, anche e soprattutto considerando il conflitto israelo-palestinese condannando chi affama razionando le calorie a disposizione per la popolazione nella Striscia di Gaza diminuendole di anno in anno, avvelenando le falde acquifere palestinesi (perché anche assetare è un crimine).
Sarebbe stata un’azione controcorrente, forse puramente pannelliana, che però non avrà mai avuto luogo in una radio dell’establishment com’è diventata ora Radio Radicale.

Né scià, né ayatollah: il futuro dell’Iran sarà democratico

«Non abbiamo bisogno di un ritorno al passato: non ci interessa la monarchia. Vogliamo un Iran democratico, libero e laico», a parlare è il dottor Khosro Nikzat, cardiochirurgo presso l’Ospedale di Cuneo. Presidente dell’Associazione dei dottori e farmacisti iraniani in Italia, Nikzat è scappato dall’Iran quando l’ayatollah Khomeini riuscì a prendere il potere a seguito della rivoluzione che fece cadere lo scià Mohammad Reza Palavi.

Senza lieto fine

Quella dell’Iran è una storia che in pochi ricordano: gli avvenimenti dell’ultimo ventennio tendono a sovrastare quanto vissuto dal paese nel recente passato. Nel 1979 la società iraniana stava attraversando un periodo di forte fermento culturale, politico e sociale. La popolazione non supportava più il potere di Reza Palavi, dunque della monarchia: voleva un cambio radicale dell’assetto statale. Si era messa in moto una nazione intera: dalle associazioni politiche liberali a quelle comuniste e socialiste, dai laici ai sostenitori di Khomeini. Subito dopo la caduta dello Scià, tuttavia, la parte religiosa oltranzista ha prevalso sulle altre e lo stato diventò sì una repubblica ma confessionale: la Repubblica islamica dell’Iran. Spesso, osservando i processi rivoluzionari nella storia, sfugge la molteplicità di attori che sono parte di un movimento per un medesimo obiettivo, pur con fini diversi. «Sono arrivato in Italia nel 1979, sei mesi dopo la cacciata del potere monarchico: da quel momento non ho più fatto ritorno nel mio paese d’origine», Nikzat voleva studiare medicina in Italia «con la speranza di tornare».
Ma questo suo desiderio non si è mai avverato.

Foto di <a href="https://unsplash.com/it/@javad_esmaeili?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Javad Esmaeili</a> su <a href="https://unsplash.com/it/foto/persone-che-camminano-sul-parco-durante-il-giorno-P6NucxXqXm0?utm_content=creditCopyText&utm_medium=referral&utm_source=unsplash">Unsplash</a>
Foto di Javad Esmaeili su Unsplash

«Quando ho intuito cosa stava accadendo – prosegue Nikzat – ho capito che non sarebbe stato più possibile tornare in Iran: mi sono dichiarato ufficialmente contro il regime degli ayatollah, dunque mi è stato impossibile tornare in Iran». Tornare avrebbe significato esporsi a pericoli enormi: l’opposizione non era accettata da Khomeini, né ora da Khamenei, tanto meno sono tollerate manifestazioni di dissenso.

La Resistenza (in esilio) si organizza

La diaspora iraniana ha fatto sì che venissero a crearsi dei focolai di resistenza alla Repubblica islamica. L’esperienza più longeva, al momento più consistente nonché riconosciuta da molti paesi a livello internazionale, è il Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri) di cui l’organizzazione dei Mojahedin del popolo è tra i maggiori esponenti, l’attuale presidentessa è Maryam Rajavi, moglie dello storico leader Massoud Rajavi scomparso nel 2003. «Il 52% degli organismi direttivi del Cnri – spiega Nikzat – è composto da donne», tra cui figura anche Zolal Habibi che nel 1988, a seguito dell’uccisione del padre da parte del regime, inizia ad intraprendere la lunga marcia che l’ha successivamente condotta all’attuale impegno politico. Nata negli Usa, è componente della resistenza dall’88: un passato in Italia e ora è di base a Parigi.

«La resistenza iraniana – prosegue il dottore – si divide in tre tronconi: la prima, diplomatico-politica, ha sede a Parigi; la seconda è in Albania, nel campo-città Ahsraf 3, a 30km da Tirana, in cui vivono i membri della resistenza; la terza è in Iran ed è formata dalla rete delle Unità di rivolta che organizzano proteste e azioni di sensibilizzazione nel paese». Parte della resistenza, o meglio, simpatizzante del Cnri e di Rajavi, è anche l’associazione dei Giovani iraniani la cui portavoce è Azar Karimi. Romana, classe ‘86, figlia di esuli che hanno vissuto le proteste contro Reza Palavi, non ha mai visto l’Iran ma si riconosce «nel programma di transizione» della resistenza proposto da Rajavi.

«Il popolo iraniano sa da sé come rovesciare questo regime», sostiene fiduciosa Karimi, «anche grazie alle azioni che i nuclei di resistenza» conducono dentro e fuori l’Iran.

Certo è che se l’opposizione dovesse riuscire ad andare ora al potere, la situazione non sarebbe facile da affrontare: la guerra con Israele è ancora alle porte e la tregua – pur siglata – ha l’aria di durare ben poco. Ma su questo Nikzat non nutre particolari dubbi: «la guerra finirebbe dal momento che riconosceremmo entrambi gli stati come indipendenti: quello di stato di Israele e quello di Palestina», «il regime» avrebbe continuato «a cavalcare il conflitto tra le parti» per sperare di espandere la propria area d’influenza in Medio Oriente.

Verso la democrazia

«Nella difficile situazione in cui versa l’Iran – sostengono sia Karimi che Nikzat – sebbene il passato possa presentarsi come ‘nuovo’, l’alternativa non è il ritorno alla monarchia ma sarà la repubblica democratica». In cosa consiste, allora, la transizione proposta da Mariam Rajavi? Transizione democratica e instaurazione di una repubblica laica, separazione tra religione e stato, abbandono del programma nucleare, pari diritti di genere, disconoscimento della sharia e sospensione della pena di morte.

Articolo pubblicato su L’Eco di Bergamo il 3 agosto 2025